STORIA DEL COMPOST CHE SI COMPOSTAVA MALE

Scusate l’irresistibile gioco di parole, ma da quando ci siamo addentrati nello strano e paradossale mondo del compost (almeno per quel che accade in Italia), mai altro titolo ci è sembrato più adatto. Vi spieghiamo meglio.

Circa un anno fa entrava in vigore anche in Italia la direttiva UE volta a ridurre l’uso delle SUP (Single Use Plastic) cioè tutti i prodotti in plastica monouso, con l’ambizioso obiettivo di traghettare l’Europa verso le zero emissioni e di avere entro il 2030 un’Unione Europea a Impatto Zero! 

Secondo la direttiva UE, rientrano nella categoria SUP sia le plastiche originate da fonti fossili che quelle originate a partire dalle biomasse (quindi tutto ciò che è prodotto in plastica tradizionale, oxo-degradabile, biodegradabile e compostabile) e, sempre secondo la direttiva, tali prodotti andrebbero tutti (!) smaltiti nell’indifferenziato.

Si, avete capito bene, per l’Unione Europea anche la plastica compostabile non è considerata rifiuto organico! Il perché ce lo chiarisce quanto riportato nelle Linee Guida del Legislatore Europeo «se un polimero è ottenuto mediante un processo industriale e lo stesso tipo di polimero esiste in natura, il polimero fabbricato non può essere considerato un polimero naturale».

Dunque se le bioplastiche non possono essere considerate naturali, non possono essere smaltite insieme ai rifiuti organici. Semplice, no? No.

E noi italiani potevamo mai perdere un’occasione per farci riconoscere? Assolutamente no. E così abbiamo deciso di apportare una deroga alla direttiva: per noi (e per la nostra legge!) la plastica compostabile va nell’organico.

Ed è qui che inizia la danza dei paradossi. Ma prima di iniziare a ballare, facciamo un po’ di chiarezza.

Cos’è un prodotto biodegradabile? Un prodotto che può subire la degradazione biologica (degradarsi in acqua, anidride carbonica e biomassa) grazie all’azione di microrganismi e dell’ossigeno. La biodegradazione può essere totale (si degrada trasforma completamente nelle materie sopra citate, senza lasciare residui dannosi nell’ambiente). E può essere primaria quando invece la biodegradazione non è completa e qualcosa resta nell’ambiente (talvolta anche residui tossici o dannosi).

Cos’è un prodotto compostabile? Un prodotto biodegradabile che può essere sottoposto al compostaggio, cioè il processo di trasformazione di rifiuti organici nel compost (un materiale stabile e inodore, ricco in sostanze nutrienti) che avviene in appositi impianti. Un prodotto compostabile può dirsi tale solo se supera il test europeo EN 13432 di biodegradabilità (si degrada almeno del 90% in 6 mesi a contatto con elevante concentrazioni di anidride carbonica) e il test di disintegrazione (il prodotto a contatto con rifiuti organici per un periodo di 3 mesi, si riduce per il 90% in frammenti di 2 mm).

Ma allora, se esiste una plastica certificata compostabile perché per la direttiva UE va gettata nell’indifferenziato? E perché noi italiani che la gettiamo nell’organico commettiamo un terribile errore?

Innanzitutto perché la plastica compostabile è tale solo se viene ridotta in frammenti molto piccoli già al momento dello smaltimento domestico (cosa di cui il consumatore, a livello mondiale, non è assolutamente informato). In secondo luogo, perché il compost che deriva da plastica compostabile ha una qualità (e possibili utilizzi) molto inferiore rispetto a quello derivante da rifiuti organici naturali.

Poi, perché in Italia il 63% dei rifiuti organici viene scaricato in impianti di smaltimento anaerobici (che agiscono in assenza di ossigeno) dunque un ambiente che impedisce la degradazione della plastica compostabile. Solo la restante parte dell’umido finisce in impianti di compostaggio ma per un tempo che non è sufficiente a permettere la degradazione della plastica compostabile, questioni messe ben in luce dall’Unità Investigativa di Green Peace Italia.

Infine, tutti i rifiuti prima di essere depositati nell’apposito impianto di smaltimento, vengono sottoposti al processo di vagliatura che li separa per dimensione e per materiale (riconosce la presenza di materiali non idonei a quell’impianto e li scarta). Ad esempio, può accadere che in un impianto per il riciclo del vetro, con la vagliatura venga rilevata la presenza di una bottiglia di plastica buttata per errore, e viene scartata.

Dunque, cosa accade negli impianti di compostaggio? La vagliatura non riconosce la plastica compostabile come materiale organico (soprattutto per le dimensioni dei prodotti) e viene scartata, finendo in discariche o inceneritori.

Ma perché prima di gridare al miracolo della plastica compostabile, non sono stati messi in luce questi evidenti problemi?

La risposta la troviamo nel modo in cui vengono fatte le analisi in laboratorio, che non riproducono delle situazioni reali, come spiega in dettaglio il report Altro che Compost! di Greenpeace: sono sempre eseguite in presenza di ossigeno (ma in Italia più della metà dei residui finisce in impianti anaerobici!) e in secondo luogo, vengono sempre analizzati campioni di piccole dimensioni, ridotti in pezzi prima di essere buttati nel cestino, cosa che come abbiamo visto il consumatore medio generalmente non fa (perché non sa!).

Crediamo sia ormai chiaro che i Legislatori Europei, consci di tutte queste problematiche ancora presenti in relazione alla plastica compostabile, abbiano scelto di risolverle stabilendo di smaltire tutte le plastiche tra i rifiuti indifferenziati.

E noi invece costituiamo consorzi (Biorepack) per il riciclo della plastica compostabile e ci facciamo portavoce a livello europeo di un approccio eco, green e circolare che oggi sembra non essere ancora possibile!

Il perché?

Perché l’industria italiana delle bioplastiche ha un fatturato che supera il miliardo di euro e con un tasso di crescita che si conferma del +10% annuo, non vi sembra una risposta esaustiva?

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